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AVETE IL DIRITTO DI RESTARE IN SILENZIO… PER SEMPRE: LA LEGGE SECONDO WILLIAM LUSTIG

William Lustig è uno di quei pochi artisti che si possono "vantare" di aver saputo trasfigurare e stravolgere, di fronte all'immaginario collettivo una gloriosa istituzione come il corpo di polizia americano.
Nato il 1° febbraio 1955 a New York City, nell'allora molto più malfamato quartiere del Bronx, nipote nientemeno che del famoso pugile italo−americano Jack La Motta, Lustig ha seguito una trafila artistica comune ad altri registi ora di moda e di successo (un esempio per tutti, Wes Craven): i suoi esordi dietro la mdp avvengono infatti nell'affollato sottobosco delle "luci rosse".
Sceltosi lo pseudonimo di Billy Bagg, Lustig esordisce nella duplice veste di regista e produttore nel 1977 con Hot Honey, un classico hard dell'epoca, interpretato da Robin Byrd, Jamie Gillis, Serena e Herschell Savage. Sempre dello stesso anno è The Violation of Claudia, ancora con Jamie Gillis e Sharon Mitchell nel ruolo di Claudia, casalinga ricca ma trascurata avviata alla prostituzione da un istruttore di tennis. Sulla scorta di questi due lungometraggi a tripla X (con questa sigla sono bollati i prodotti pornografici nelle sale degli Stati Uniti), Lustig si appresta al debutto nel cinema serio, pur sempre circoscritto ai più abbordabili confini della serie B.
L'occasione si presenta tre anni dopo, nel 1980, quando ha modo di leggere una sceneggiatura a dir poco "efferata", opera di un attore dalla faccia e dal passato poco rassicuranti, Joe Spinell, che merita qui un piccolo approfondimento biografico.
Spinell (vero nome Joseph J. Spagnuolo) è un concittadino di Lustig, essendo anch'egli di New York City, dove nasce l'11 maggio 1937. I suoi "primi passi" artistici sono illustri: l'esordio avviene infatti con “Il Padrino” di Coppola (1972), dove recita la parte del sicario Willy Cici, personaggio che ritorna anche nel primo seguito della saga. I più attenti lo ricordano quindi nel ruolo di Gazzo, il viscido strozzino che nel “Rocky” di Avildsen (1976) assume Stallone come esattore.
Ma il ruolo della vita Spinell lo interpreta − sarebbe più appropriato dire che lo "perpetra" − sotto la regia di Lustig, nel truculento Maniac (Id.). L'attore, nelle inconsuete vesti di protagonista assoluto nonché di coproduttore, è Frank Zito, un psicopatico tormentato dai ricordi di un'infanzia di abusi e sevizie. L'uomo vaga per le strade più sordide e buie di New York − ma colpisce, come nell'impressionante prologo, anche alla luce del sole − e fa strage di donne, che attira nel suo appartamento, uccide e priva dello scalpo, con il quale addobba una assurda galleria di manichini. Le cose sembrano cambiare quando Frank intreccia una (improbabile) relazione con una bella fotografa (Caroline Munro), ma il passato e la devianza incombono.
Maniac, descritto dal suo autore come "Lo Squalo versione terraferma", è stretto in una morsa malsana e morbosa, percorso da un rantolo di verismo disperato che lo rende ancora più disturbante. Merito − o colpa, a voi l'ardua sentenza − di una fotografia livida, esangue, che Lustig ha ereditato dai sue esordi hardcore e che avvolge il film in una guaina soffocante. Non va dimenticato l'apporto tecnico di Tom Savini, responsabile di effetti speciali a dir poco grandguignoleschi: in una sequenza dal sapore catartico Savini tecnico fa letteralmente esplodere la testa a Savini attore, sotto gli occhi atterriti di una ragazza. A testimoniare la scarsità dei mezzi produttivi riveliamo che le scene con l'elicottero sono prese di peso dall'”Inferno” argentiano, mentre il ruolo della coprotagonista, poi affidato alla Munro, stava per aggiudicarselo Daria Nicolodi, allora compagna del "mago del brivido" romano. Spinell, in seguito, prende parte al secondo lungometraggio di Lustig, Vigilante, di cui parleremo più diffusamente nel seguito, prima di eclissarsi lentamente.
Più delle sue rabbrividenti caratterizzazioni farà scalpore la singolare richiesta del pluriomicida John Wayne Gacy, che dalle mura di una cella fa sapere di voler recitare fianco a fianco con l'attore di Maniac.
Al principio del 1989, mentre Spinell è impegnato nelle riprese di un horror studentesco, “Mr. Robbie” (titolo di lavorazione: “Maniac 2”…), l'attore muore improvvisamente per un attacco di cuore. E' il 13 gennaio. Mr. Maniac lascia moglie e due figli.
Come anticipato, il secondo lungometraggio Lustig lo gira (e lo produce) nel 1982; si tratta di un film il cui titolo compendia inconfutabilmente il contenuto: Vigilante (Id.). Il regista newyorkese si accoda all'ideologia della "giustizia fatta in casa" divulgata con successo negli Anni 70 dalla premiata ditta Michael Winner & Charles Bronson, con la famigerata serie “Death Wish”, ovvero “Il Giustiziere della Notte” e seguiti vari, girando un B−movie dal budget sottozero nobilitato però da un grande cast: Fred Williamson, Woody Strode, Robert Forster ben prima della rinascita tarantiniana con “Jackie Brown”, e appunto Joe Spinell, in un gustoso cameo nella parte di un laido − come, altrimenti? − avvocato. La storia non potrebbe essere più scontata, con Forster che si trasforma in spietato carnefice per vendicarsi di una gang di coatti neri che gli hanno sterminato la famiglia. Imprigionato, scoprirà sulla propria pelle la dura legge del carcere. Nonostante gli esigui mezzi a sua disposizione, Lustig gira con perizia e senso dell'inquadratura, che se da un lato elevano il film una spanna al di sopra degli altri “giustizia−fai−da−te movies”, dall'altro sollevano più di un dubbio sull'ambiguità intellettuale di questa operazione. Come mero prodotto di fiction il film funziona, ha ritmo e nerbo, consigliamo quindi di non prendere troppo sul serio il messaggio − posto che esista veramente − che lo sottende. Una curiosità: nel 1974 Lustig era stato uno degli assistenti al montaggio nel primo “Giustiziere della notte”…
A questo punto Lustig, che non si è certo permesso la jacuzzi con i proventi dei suoi film, si concede un lungo periodo di riposo, sei anni durante i quali ha modo di forgiare e perfezionare un sodalizio artistico duraturo con un grande artigiano e manipolatore del cinema underground: Larry Cohen. Cohen (nome completo Lawrence G. Cohen), classe 1938, pure lui originario di New York City, a quel tempo è già una piccola celebrità al piano rialzato del grattacielo−cinema Usa, prima come ideatore negli Anni 60 della serie televisiva di fantascienza “The Invaders”, poi nel decennio successivo come regista di pellicole di culto, quali “Black Caesar − Il padrino nero” (1973), con Fred Williamson, e “Baby Killer” (1974), con Michael Moriarty.
Cohen, definibile come un Roger Corman in scala ridotta, è artista inventivo e poliedrico: scrittore, regista e produttore. Proprio da una sua sceneggiatura prende forma il terzo film di Lustig, Maniac Cop (1988), "capolavoro incompiuto" del Nostro e suo film−manifesto.
La storia è stuzzicante: immaginate che per le strade di New York si aggiri un tutore dell'ordine che oltre a perseguire i delinquenti infierisca anche sui malcapitati cittadini, senza preclusioni o preferenze. L'incipit del film è a tale proposito folgorante: la sequenza che porta gli autori di uno scippo a imbattersi nella minacciosa sagoma del Maniac Cop (interpretato dall'impressionante Robert "mascella d'alce" Z'Dar) è un piccolo gioiello di suspense, che Lustig crea con impeccabile rigore. In realtà il "Poliziotto sadico" (con questo titolo si presentò nelle nostre sale in un'estate di molti anni fa) è un zombi−sbirro, Matt Cordell, tornato per l'ovvia vendetta nei confronti dei corrotti che anni prima lo avevano incastrato e fatto condannare.
Peccato che dopo mezz'ora la storia si smonti come maionese impazzita, e la meccanica ritualità degli omicidi finisca per soffocare l'humour nero presente nello script di Cohen. Il film, nel cui cast si segnala la presenza di Richard Roundtree, indimenticato protagonista della serie “Shaft”, di Tom Atkins e della bionda starlet Laurene Landon, si fa comunque apprezzare per quella vena truculenta e incarognita che lo trasforma nell'ideale alter ego parodistico di Arma Letale & Co.
Il 1988 vede Lustig in pista con un altro film, Hit List (Hit List − Il primo della lista), thriller convenzionale scritto da Peter Brosnan e John F. Goff che riprende in parte il tema del cittadino incautamente "molestato" che si “rambizza” e sfida il mondo del crimine. Qui l'uomo tranquillo è Jan−Michael Vincent, il cui unico torto è di essere vicino di casa di un testimone chiave in un delitto di mafia. Lance Henriksen, il sicario incaricato di eliminare lo scomodo ostacolo, sbaglia però porta e sconvolge così la vita del povero Vincent: moglie gravida traumatizzata, amico trucidato, figlioletto rapito. Ce n'è abbastanza per trasformare il ragioniere Filini in Cobra. Lustig diluisce il tasso di efferatezze del "poliziotto sadico", ma non lesina ovvietà in un film mai coinvolgente. L'inedita alleanza fra il "mafioso con cuore" Leo Rossi (attore per così dire feticcio del regista) e il determinatissimo padre di famiglia non riesce a risollevarne le sorti, né tanto meno le pur decorose scene d'azione o un finale che ricorda il “Terminator” di Cameron. L'anno successivo Lustig aggiusta in parte il tiro con Relentess (Senza limiti), psycho−thriller illuminato dall'interpretazione di Judd Nelson, che veste con ammirevole adesione psicopatica i panni di Arthur "Buck" Taylor, uno psicolabile che vive schiacciato dal ricordo del padre defunto, poliziotto modello, e i rimorsi per non averne sapute emulare le gesta. Il ragazzo decide così di misurarsi a modo suo con le forze dell'ordine: sceglie le vittime pescandole a caso dall'elenco telefonico e poi avverte gli sbirri. Sarà uno di loro, Sam Dietz (Leo Rossi), appena trasferitosi dalla Grande Mela nella Città degli Angeli, a risolvere il pietoso (e criminoso) caso.
Cast solido − menzione anche per Robert Loggia nei panni del capitano Malloy e per Meg Foster, moglie di Dietz − per un film che alterna buone intuizioni e una regia a tratti efficace a banalità sconcertanti (per esempio, l'evitabile doppio finale). Scritto da Phil Alden Robinson − che nello stesso 1989 dirigerà l'elegiaco “L'uomo dei sogni” − il cambio di scenario da New York a Los Angeles penalizza lo stile sgranato e docu−voyeuristico di Lustig, più a suo agio sotto i neon scorsesiani che all'ombra delle palme californiane. Una curiosità: il personaggio di Sam Dietz (sempre impersonato da Leo Rossi) darà vita a una vera e propria mini−serie, che non porterà però eccessiva fama e fortuna al suo interprete.
Si inaugura l'ultima decade del secondo millennio e il discreto successo commerciale raccolto da Maniac Cop genera un immancabile seguito: Lustig e Cohen riuniscono i loro talenti e danno vita a Maniac Cop 2. A questo punto urge una digressione: per illustrare il caos e l'approssimazione da sempre sovrani nella distribuzione italiana basti sapere che in Italia, con tardiva programmazione agostana, i due film di Lustig furono presentati cronologicamente invertiti. Maniac Cop 2 fu distribuito con il titolo Maniac Cop, mentre il predecessore, come accennato, uscì l'estate successiva con il titolo di Poliziotto Sadico…
Tornando al sequel, lo zombi in divisa Matt Cordell è sempre più inarrestabile per le strade di New York. La sua sete di vendetta non risparmia neppure i sentimenti, nella persona di Cheryl (Paula Trickey), sua vecchia fiamma. Contro di lui si schierano il duro poliziotto Robert Davi (“007 vendetta privata”) e la coraggiosa Linda Christian, mentre il povero Bruce Campbell (attore−portafortuna di Sam “Spider−Man” Raimi) scopre sulla propria pelle quanto sia rischioso attardarsi nottetempo su una panchina a sfogliare un quotidiano. Leo Rossi completa il cast nei panni di un vagabondo, estemporaneo complice di Cordell.
La sceneggiatura di Cohen è prodiga di sarcasmo e di humour nero, ma la regia di Lustig va presto in apnea. Rimane il rimpianto, come per il suo predecessore, per un prologo mozzafiato che lasciava cullare ben altre speranze, e che conferma Lustig regista ad autonomia di talento limitata.
Sempre nel 1990 Lustig dirige, non accreditato, la commedia Far Out Man, seguito di “Soul Man”, film diretto da Steve Miner nel 1986, protagonista C. Thomas Howell. La pellicola, attribuita ufficialmente al suo protagonista, il comico canadese Thommy Chong, è un road−movie in cadenze comiche, non certo nelle corde del rude Lustig.
Una certa stasi creativa − non che Lustig sia mai stato baciato dalla Ninfa della Fantasia − traspare dalla scelta che il regista del Bronx opera, tornando a ridestare lo spettro di Matt Cordell per la terza incursione nella saga del poliziotto maniaco: Maniac Cop 3: Badge of Silence esce infatti nel 1992, con l'immancabile supervisione e sceneggiatura di Larry Cohen. Il film, che in Italia si palesa solo negli inediti home video come Maniac Cop 3 − Il Distintivo del Silenzio, conferma pregi e difetti di William Lustig: un innegabile talento visivo, "sporco", grezzo e morboso, incapace di permeare di sé l'intero film.
In questo caso il soggetto scritto da Cohen scomoda anche il voodoo, mentre Cordell è alla ricerca di una degna compagna in quello che da più parti è stato ribattezzato come "Bride Of Maniac Cop" ("La Moglie del Poliziotto Maniaco", in parole povere). Lo zombi−sbirro pare averla trovata in Gretchen Becker, una poliziotta che, dopo essere stata accusata di utilizzare metodi brutali, viene mandata in coma da alcuni rapinatori. Robert Davi ritorna dal numero 2 e cerca di opporsi all'immortale Cordell, mentre nei panni del dottor Powell si rivede Robert Forster. Pochi guizzi e molto déjà−vu. Alcune fonti attribuiscono la regia, oltre che a Lustig, a un certo Joil Soisson. Mah…
Il lungometraggio successivo Lustig lo dirige a quattro mani con Rick Avery, più celebre come stuntman che come regista: The Expert (1994). Il protagonista è Jeff Speakman, di Chicago, Illinois, cintura nera 6° dan di Gojo−Ryu e cintura nera 6° dan di Kenpo, già visto in “Arma Perfetta” (1991) di Mark DiSalle.
L'attore−atleta veste i panni di Johnny Lomax, la cui sorella viene brutalmente assassinata da un serial killer. L'assassino, arrestato e condannato alla sedia elettrica, si vede la pena commutata per infermità mentale. Ma Johnny, guarda caso ex istruttore delle forze speciali, è di altro avviso… Partendo da un soggetto scritto dal fido Cohen in coppia con Max Alan Collins, il film delude gli appassionati dei film di arti marziali perché eccessivamente verboso: in un'ora e mezzo abbondante di pellicola a Speakman sono concessi solo due sequenze di combattimento! Il vero problema è nell'indecisione sull'indirizzo da dare: la presenza di Larry Cohen in fase di sceneggiatura toglie inevitabilmente spazio alla logica corriva dei moderni kung−fu flicks americani, tutti sguardi truci e calci laterali. Lo squilibrio evidente fra l'azione (poca) e i dialoghi (troppi) finisce per trasformare The Expert in un ibrido indigeribile. I fans del cinema d'azione sono avvertiti…
Passano un paio di anni e Lustig, ormai distratto da attività extraregistiche, che vi illustreremo dopo, torna dietro la mdp per dirigere quello che è a tutt'oggi il suo ultimo exploit: Uncle Sam (1996). Scritto dall'immancabile Larry Cohen, il film annoda temi familiari, in zona Maniac Cop per intenderci, a una non troppo velata satira della retorica militare e della cattiva coscienza americana nei confronti dei suoi veterani.
Un reduce dell’operazione “Desert Storm”, ucciso in combattimento, risorge dalla tomba il 4 luglio, Giorno del Ringraziamento, per uccidere i suoi poco patriottici concittadini, dopo che alcuni ragazzotti in vena di bravate hanno bruciato la bandiera americana sulla sua tomba. L'intento simbolico−satirico di Cohen è qui ancora più scoperto: il grottesco zombi−soldato che fa strage di uomini agghindato come uno Zio Sam da parata sembra indicare il macabro destino cui una tronfia propaganda nazionalista ha condannato nei decenni migliaia di "young and brave americans". Il gioco, però, ha purtroppo il fiato corto, e ben presto lo schematismo e la maniera prendono il sopravvento. Una delizia per i fans del genere, comunque, è assistere all'ultima missione del soldato "Uncle Sam", che falcidia schiere di giovani coatti e anziani ipocriti reazionari. Cast da culto, con Timothy Bottoms, il di lì a poco rivalutato Robert Forster e il guru delle colonne sonore della blaxploitation, Isaac Hayes. Il film, a testimoniare l'incipiente indifferenza riservata a Lustig dagli importatori nostrani, non ha ancora visto la luce sul mercato italiano. Appesa − temporaneamente? − al chiodo la mdp, William Lustig pare essersi dedicato alla più proficua attività di importatore−distributore nonché restauratore di classici del cinema horror.
L'autore di Maniac è stato infatti per anni una delle teste pensanti della Anchor Bay Entertainment, società specializzata nella vendita, nel noleggio e nella distribuzione di DVD e VHS. L'attenzione di Lustig si è tra l’altro concentrata nell'acquisizione dei diritti di molte pellicole della gloriosa Hammer Films, nonché del catalogo di Dario Argento, di cui ha curato un'interessante edizione in DVD per il mercato americano. In tempi recenti il regista di Maniac ha fondato la Blue Underground, per la quale ha tra l’altro curato una ricca edizione in DVD di “Django”, il cupo e crudo spaghetti−western di Sergio Corbucci. Per finire, la poliedricità di William Lustig è confermata dalla sua partecipazione come attore − quasi sempre in veste di ospite amichevole − in diversi film, suoi e non. Lo ricordiamo infatti titolare di un motel nei primi due Maniac Cop, poliziotto in Relentess, ma soprattutto lavoratore portuale in “Darkman” di Sam Raimi e Fake Shemp in “L'armata delle Tenebre”, sempre di Raimi, ruolo del quale è particolarmente orgoglioso. I tempi di Maniac Cop sono forse definitivamente tramontati, ma se la penna di Larry Cohen dovesse essere nuovamente percorsa da strani fremiti, sapete dove andrebbe a farsi "curare"…

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