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IL CONTO E' CHIUSO - STELVIO MASSI

“Mi vergognai come un ladro alla prima di Squadra volante al Metropolitan di Roma, per gli applausi a scena aperta nel momento dell’esplosione dell’auto della polizia dopo una raffica di mitra sparata dai banditi. Ci guardammo negli occhi e dicemmo: ‘E che so’ tutti matti?’”

Il 26 marzo (giorno in cui era nato...) 2004 è morto all'età di 75 anni, in una clinica di Velletri, non distante da Roma, il regista Stelvio Massi; per una singolare coincidenza la vita lo ha spento lo stesso giorno in cui, 75 anni prima, lo aveva donato alla luce in quel di Civitanova Marche. Cresciuto artisticamente negli empirici Anni 60, Massi ha seguito il canonico cammino dell’apprendista, cimentandosi prima come “aiuto architetto, perché frequentavo la facoltà di Architettura all’Accademia di Belle Arti di Roma (…) cominciai a fare l’assistente operatore per otto anni, poi passai a lavorare come operatore e per altri otto lunghi anni rimasi ad imparare. Prima di fare il regista ho anche diretto la fotografia per 70/80 film”. L’esordio alla regia, datato 1973, è ambizioso quanto sfortunato: Giuda uccide il venerdì (distribuito poi due anni dopo con il titolo di Macrò) è la storia di “Gesù, Maddalena e Giuda piazzati nei nostri giorni”. Gesù (Leonard Mann) è un chitarrista fricchettone, mentre Maddalena, coerentemente, una battona in cerca di redenzione. Nello stesso anno Massi gira Squadra volante, un film che traccia le coordinate lungo le quali si snoderà quasi tutta la produzione futura del regista marchigiano. La pellicola, un solido poliziesco girato con stile asciutto e nervoso, è interpretata da Tomas Milian, Gastone Moschin e Stefania Casini, e rappresenta a tutti gli effetti il debutto di Massi, poiché viene distribuita nelle sale prima del fallimentare “Macrò”. Gli ottimi incassi e i favori di un pubblico entusiasta spingono il cineasta a proseguire nel solco del neonato “poliziottesco”, genere per il quale mostra una notevole predisposizione tecnica: buon senso del ritmo e dell’inquadratura, movimenti di macchina singolarmente ricercati, con ripetute mini-carrellate avvolgenti e suggestivi ralenti (memorabile quello in cui Merli sfonda una vetrata e spara in “Poliziotto solitudine e rabbia”) che diventano presto il suo marchio di fabbrica. Nel corso di una stagione breve ma intensa e variegata, Massi trasforma in commissario un divo dei fotoromanzi, Franco Gasparri (“mi ricordo un’estate a Genova sul set del nostro primo ‘Mark’… tutte quelle ragazzine arrivate da ogni parte che gli chiedevano l’autografo facendo intravedere il seno dalle camicette sbottonate. Ma Franco, fin troppo serio e timido, le rimproverava mandandole via”), convincente protagonista della fortunata trilogia di Mark il poliziotto consumata nel biennio ’75-’76; trasforma in taciturno, enigmatico vendicatore dei vinti e degli oppressi un pugile famoso come Carlos Monzon nel discontinuo Il conto è chiuso, rivisitazione contemporanea del citatissimo “La sfida del samurai” di Kurosawa. Infine, dà vita a un proficuo sodalizio artistico con Maurizio Merli (“un ragazzo eccezionale, molto simpatico. Un vero professionista”), che dirige in ben sei pellicole, tra le quali ricordiamo l’adrenalinico Poliziotto sprint (1977), “il film a cui sono più affezionato”, e il crepuscolare, melanconico Poliziotto solitudine e rabbia (1980), canto del cigno di un genere ormai superato dall’inclemente incedere del progresso estetico-mediatico. Negli Anni Ottanta, quelli della Grande Depressione cinematografica, Massi ha dovuto abbandonare il suo ruolo di “regista sprint” per continuare a lavorare: così si spiegano i due “Merola-movie”, Guapparia (1983) e Torna (1984), “girati in sole sei settimane, uno di seguito all’altro”, il giallo erotico Arabella l’angelo nero (1989) e il pauperistico Wardogs – Il quinto giorno (1995), la sua ultima fatica dietro la mdp.
Regista umile quanto preparato, Massi ha mirabilmente incarnato lo spirito più genuino e autarchicamente artigianale di quel cinema popolare italiano, ormai irrimediabilmente estinto, in cui registi si diventava per accumulo di esperienza e per preparazione, non per precipitosa presunzione.

Un doveroso ringraziamento alla (ahinoi ormai da tempo defunta) rivista Amarcord, per le dichiarazioni estrapolate da un’intervista a Stelvio Massi curata da Matteo Norcini e Stefano Ippoliti.

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