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STARS WITH SCARS: DOLPH LUNDGREN


IL CREPUSCOLO DEGLI ACTION HEROES DEL SECONDO MILLENNIO

Domanda retorica: al cinema gli action heroes sono forse passati di moda? Logori, stanchi e invecchiati, gli eroi del grande schermo dell’ultimo ventennio sembrano condannati a un lento ma inesorabile oblio, primo passo di un (pre)pensionamento coatto sancito anni orsono dal loro (prematuro?) confinamento nei territori marchiati DTV (Direct-To-Video). Banditi in modo irreversibile dalle sale cinematografiche, i nostri “eroi” sopravvivono ai confini del mondo scintillante di Hollywood & dintorni, emarginati ma non per questo rassegnati, decisi ad alimentare comunque i sogni, sbiaditi ma sopravvissuti, di quella generazione di spettatori che ricorda, e talora riguarda, film del calibro di “Lionheart” come di “Nico”, di “Caccia mortale” come di “Trappola in alto mare”.
DOLPH LUNDGREN
L’atletico ma legnoso svedese Dolph (all’anagrafe Hans) Lundgren, invece, ha già doppiato Cape Fifty (quantunque alcune fonti riportino come anno di nascita il 1959 e non il 1957). La sua carriera in questo scorcio di terzo millennio è stata, se possibile, ancora più confinata entro gli angusti confini del suk homevideo. Una manciata di actioneers ben poco memorabili, da “The Last Patrol” (2000) di Sheldon Lettich a “Hidden Agenda” (2001) di Marc S. Grenier, da “Detention” (2003) di Sidney J. Furie a “Retrograde” (2004) di Christopher Kulikowski. Proprio il 2004, però, finisce per occupare un ruolo di rilievo negli annali dell’ex Ivan Drago di stalloniana memoria, coincidendo con il suo esordio dietro la macchina da presa. Con somma sorpresa dei fans e di Dolph stesso (che rimpiazza all’ultimo momento l’esperto Sidney J. Furie per sopraggiunta malattia), l’attore di Stoccolma si dirige in “The Defender”. Il risultato: sorprendente. Intendiamoci: si tratta di un action claustrofobico girato in economia, con il protagonista e la sua squadra assediati in una villa da un nugolo di terroristi smaniosi di eliminare il presidente degli Stati Uniti… L’insospettata qualità registica riscatta la banalità del plot: Lundgren sa dove collocare la macchina da presa e come muoverla senza inutili contorsionismi, rinuncia ai più abusati trucchi dell’odierna postproduzione e monta il film in maniera classica, lineare, scolastica forse, ma ineccepibile.
L’esperienza, positiva, viene replicata l’anno successivo con “The Mechanik”(o “The Russian Specialist”), un film in cui Dolph conferma quanto di buono mostrato in “The Defender”. La storia è semplice (Dolph, ex soldato scelto convertitosi in meccanico, vuole vendicare l’accidentale uccisione del figlio per mano di alcuni mafiosi russi), l’ambientazione rurale pauperistica, ma dietro la mdp c’è chi sa muovere i personaggi con sufficiente ritmo e maestria. Il risultato finale è, dunque, un solido, tradizionale action che offre un intrattenimento di discreta qualità.
Nel 2007 esce “Missionary Man”, terza regia e sorta di moderno remake non dichiarato de “Il cavaliere pallido” di Clint Eastwood. Lundgren regista sciorina una maggiore ricercatezza stilistica (ralenti, angoli di inquadratura inediti), frutto di una accresciuta sicurezza in sé, mentre Lundgren attore si limita a fare affidamento al suo monolitico, granitico carisma, interpretando una sorta di fantasma (o presunto tale) tornato dall’aldilà per raddrizzare torti (alla stregua del personaggio de “Il vendicatore” interpretato nel 1989).

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