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SHOOT TO THRILL: SHOOTER


“Questo film possiede tutti gli ingredienti che desideravo: una cospirazione, un governo corrotto, azione e, soprattutto, Mark Wahlberg” (Antoine Fuqua)

Shooter (id., Usa 2006)
Regia di Antoine Fuqua
Sceneggiatura di Jonathan Lemkin, dal romanzo “Point of Impact” di Stephen Hunter
Fotografia di Peter Menzies jr.
Montaggio di Conrad Buff IV ed Eric A. Sears
Personaggi principali: Bobby Lee Swagger (Mark Wahlberg); Nick Memphis (Michael Peña); colonnello Isaac Johnson (Danny Glover); Sarah Fenn (Kate Mara); senatore Charles F. Meachum (Ned Beatty)
Genere: thriller politico

E’ un piccolo, in fondo insignificante mistero, ma in Italia “Shooter” è passato del tutto inosservato. Ignorato. Snobbato. Due settimane in cartellone – ma la seconda con programmazione già ridotta – e poi via, verso future e migliori fortune nel più accogliente e clemente Stato di Divudilandia.
Il thriller politico, per registi e produttori, si rivela sovente un’arma a doppio taglio. L’intenzione, lodevole, di coniugare Spettacolo e Impegno, Azione e Riflessione, nasconde infatti più di un’insidia. Non sempre i due registri narrativi trovano un comune centro di gravità permanente; non sempre il regista di turno è in grado di creare tra gli elementi un equilibrio, già delicato di default. In “Shooter”, comunque, il “pollice verde” di Fuqua (“Training Day” su tutti) ha saputo creare un buon incrocio, ibridando azione esplosiva e denuncia corrosiva: il telaio narrativo è costruito con solidità artigianale, con quella perizia frutto della felice fusione di una doppia Conoscenza, quella costruita con il proprio lavoro e quella tramandata dall’altrui. Ecco quindi che il regista afroamericano mette a profitto – in maniera fin troppo ossequiosa - la lezione di illustri predecessori, quali, per esempio, Pakula e Frankenheimer, aggiungendo qualche variante personale a una ricetta peraltro conosciuta e collaudata: la capacità di far lievitare i personaggi nel corso della vicenda e quella di collocare le scene d’azione in corrispondenza dei crocevia narrativi del film, annunciando allo spettatore il cambio di direzione, talora traumatico, che quest’ultimo è in procinto di attuare. Il pregio di “Shooter”, e a ben vedere anche il suo limite maggiore, è quello di essere un film di impianto tradizionale, adagiato nel solco più marcato del genere, e di non far nulla per deviare dalla propria “classicità”: da una parte il protagonista, taciturno, fedele alla consegna ma più ancora al collega di (s)ventura, che sa ancora distinguere il labile confine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è (e in questo ruolo Wahlberg ha pochi rivali); dall’altra i Grandi Corruttori, insospettabili e intoccabili, perfidi e amorali fino al parossismo caricaturale. Il loro ghigno è tanto più beffardo e tracotante quanto più scoperto è il loro sporco gioco agli occhi del mondo. Non si tratta però di ridicole macchiette, come da più parti rilevato, quanto piuttosto di maschere greche, paradigmi tragicomici che vestono il truce e il grottesco come una seconda pelle.
Come prodotto di intrattenimento, “Shooter” rispetta fin troppo fedelmente i dettami del genere cui fa riferimento (il political thriller, appunto), con rapsodiche impennate adrenaliniche dettate dalla visionarietà di Fuqua; come film “di denuncia” si limita a mettere in scena archetipi – il protagonista, tradito dal proprio Paese, si apparta dal mondo civile, fugge sulle montagne in cerca di silenzio e solitudine prima di farsi sedurre una seconda volta dalle sirene della Ragion di Stato - e il suo valore assume quindi valenza squisitamente simbolica, priva di quelle sfumature e scalfitture così imprescindibili per molti critici e spettatori.
A giudicare dall’indifferenza con il quale è stato accolto in Italia – ma anche negli States non è andato bene -, “Shooter” avvalorerebbe la tesi secondo la quale Impegno e Intrattenimento vanno d’amore e d’accordo quanto Caino con Abele. Il primo sottrae spazio ed energie creative al secondo, e viceversa. In questo caso l’anelito di denuncia imbriglia e smorza la verve affabulatoria del regista di “Training Day” (film più riuscito perché costruito su personaggi e non su archetipi), che finisce per imporsi un’autodisciplina che ne attenua il talento visivo e sovversivo.

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