"Mi piace spaventare il pubblico, ma anche farlo ridere"
Newyorkese di Brooklyn, classe 1947, Jeff Lieberman si specializza presso la Scuola di arti visive di New York City; il suo esordio nel mondo della Settima Arte avviene in qualità di sceneggiatore con Blade (Blade – Il duro della Criminalpol), efficace thriller poliziesco diretto nel 1973 da Ernest Pintoff, regista attivo soprattutto sul piccolo schermo (nella sua carriera ha diretto, tra gli altri, episodi di “Hawaii Squadra Cinque Zero”, “Kojak”, “L’uomo da sei milioni di dollari”, “Ellery Queen”, “Hazzard” e “Falcon Crest”). Dopo un “corto” contro i nefasti effetti di dipendenza dalla droga (The Ringer, poi incluso nell’edizione americana del dvd de La sindrome del terrore), Lieberman gira nel 1976 il suo primo lungometraggio, Squirm (I carnivori venuti dalla savana). Si tratta di un horror zoologico a bassissimo costo, girato in soli 26 giorni a Port Wentworth in Georgia con attori semisconosciuti: il protagonista, Don Scardino, recitava il ruolo di un Gesù Cristo (ce n’erano diversi…) in “God Spell”, rappresentazione teatrale decisamente off Broadway finanziata dagli stessi produttori di Squirm. L’idea cardine del film - innocue esche da pesca si trasformano in creature voraci e letali per effetto di una scarica elettrica di alcune migliaia di volt – nasconde insidiose trappole di comicità involontaria, ma gli effetti speciali di Rick Baker (agli esordi della carriera) sono efficaci nella loro semplicità, così come la descrizione di un Sud rurale, melmoso e diffidente. La tensione cresce lenta, ma inesorabile, celata abilmente dal noioso tran-tran quotidiano della cittadina di Fly Creek e annunciata da rapsodici segnali inquietanti (la sparizione di un abitante, la scoperta di uno scheletro, ma prima ancora, il verme nel sodaciok del protagonista e quindi la scoperta di 30 casse di vermi vuote). A sorpresa, il film si rivela un successo, acquisendo ben presto statura di classico di un sottogenere presto ribattezzato eco-vengeance.
L’opera seconda di Lieberman, Blue Sunshine (La sindrome del terrore, 1976), si discosta nettamente dalla prima. Negli Anni Sessanta, un gruppo di studenti universitari assume una droga sperimentale chiamata “Blue Sunshine”. A distanza di un decennio, gli effetti della sostanza si manifestano sulle “cavie” con micidiali ripercussioni fisiche e psichiche: perdita dei capelli e, soprattutto, un’incontrollabile furia omicida. L’amico di una delle vittime decide di indagare sul fenomeno...
Costato appena mezzo milione di dollari, il secondo lungometraggio di Lieberman, realizzato poco dopo la tragica scomparsa del padre, enfatizza, fino a dilatarli con l’arma del paradosso, i rischi legati all’uso dell’LSD, in un periodo in cui l’assunzione degli acidi è diventata illegale negli States. Il film adotta un linguaggio crudo, vibrante e senza compromessi (memorabile la scena dei titoli di testa, sottolineata da un commento musicale a dir poco perturbante di Charles Gross), attirandosi le lodi della critica e l’indifferenza del pubblico, complice anche una distribuzione tardiva quanto carente (il film uscirà infatti sugli schermi nel 1978). Curiosità: il protagonista Zalman King diventerà poi famoso come sceneggiatore (“Nove settimane e ½”), produttore e, soprattutto, come regista di film “eso-erotici” quali “Orchidea selvaggia” e “Orchidea selvaggia 2”.
Passa un lustro prima che Lieberman torni dietro la mdp per dirigere Just Before Dawn (1981, inedito in Italia). Cinque ragazzi raggiungono in camper una zona sperduta tra i monti dell’Oregon per prendere visione di una proprietà da loro acquistata. Non avendo prestato ascolto alle parole un ranger locale (George Kennedy) che li ha avvertiti della presenza di un assassino armato di machete nella zona, né a quelle di una famiglia di contadini secondo la quale nei boschi si anniderebbero dei “demoni”, i cinque si ritrovano in balia della furia omicida di una sorta di orco, costretti a ingaggiare una micidiale lotta per la sopravvivenza…
Il film nasce da una sceneggiatura di Marc Arywitz intitolata “The Last Ritual” e incentrata su un antico rito pagano del Dio Serpente che si celebrerebbe nelle Smoky Mountains. Lieberman – che sposta l’ambientazione dal Tennessee all’Oregon - ottiene di riscriverla a suo piacimento, mantenendo dello script originale solo i personaggi, e la firma sotto pseudonimo, Gregg Irving (“I nomi di mio nipote e di mio padre”): il film si rivela un vero e proprio “work in progress”, con il cineasta americano che riscrive il copione di continuo, e ritocca le scene poco prima di girarle! Lieberman viene accusato da più parti di plagio nei confronti di pellicole quali “Non aprite quella porta” e “Le colline hanno gli occhi”, opere che lui stesso ammette di non aver mai visionato: “L’unico film al quale mi sono ispirato è ‘Un tranquillo weekend di paura’”. E’ un vero peccato che Just Before Dawn non abbia visto la luce in Italia, perché avrebbe testimoniato il talento visivo e sovversivo di uno dei registi horror più caustici e visionari. Curiosità: nel ruolo del mostro recita il gigantesco John Hunsaker, soprannominato “Twinky” per la sua passione per i dolcetti omonimi, che lo avevano portato a superare il quintale di peso.
Dopo un’altra pausa, ancora più lunga della precedente, Lieberman scrive e dirige Remote Control (Videokiller, 1987). Per sua stessa ammissione, si tratterebbe del suo film peggiore: “E’ stato fatto con il ‘telecomando’ da una casa di produzione che in quell’anno girò ben sette film a basso costo”. La trama: giunti sulla Terra per colonizzarla, malvagi extraterrestri realizzano una videocassetta di fantascienza stile Anni 50, "Remote Control", e la distribuiscono nelle videoteche. Moltissimi giovani, appassionatisi presto al cult-movie, vengono ipnotizzati dalle immagini del film, quindi, come catturati, entrano nel video per imitare le gesta criminali dei protagonisti. Cosmo, che con il socio George gestisce una grande videoteca, intuisce l'orribile macchinazione…
Bollato frettolosamente come emulo del cronenberghiano “Videodrome”, nonostante le ingerenze della produzione e l’esiguità di mezzi a disposizione, il film è una parabola corrosiva e satireggiante sulla società moderna, abulica, violenta e videodipendente. Purtroppo, l’intento metaforico di Lieberman è smorzato da una messinscena pauperistica e dalla palpabile presenza di paletti produttivi.
Dopo quest’esperienza, senz’altro deludente, il regista di Brooklyn scompare – non si sa quanto volontariamente – dal grande schermo per ben 17 (!?) anni, dedicandosi saltuariamente a lavori per la televisione.
Il 2004 sancisce il suo gradito ritorno con Satan’s Little Helper (Halloween Killer), pungente pamphlet socio-politico truccato da horror movie adolescenziale. Con questa pellicola Lieberman si conferma cineasta in grado di elevarsi al di sopra degli angusti confini del cinema di genere per comporre quadretti - ben poco rassicuranti - di ordinaria follia umana, condita con un pizzico di caustico umorismo nero. L’arsenale grandguignolesco dell’horror viene sapientemente utilizzato dal regista di Long Island per mostrare, senza alcun compiacimento né morboso né didattico, il lento deragliamento civile della società. Dougie, il piccolo protagonista del film, vive talmente in simbiosi con il “game boy” Satan’s Little Helper da mischiare, poco per volta, fantasia e realtà. E la disinvolta, irreale violenza sciorinata dall’”innocuo” gioco finisce per generare una tragicomica catena di tangibili efferatezze: “Il confine tra realtà e finzione diventa più labile ad ogni nuova versione della Play Station. La violenza digitale è un pericolo, e tra non molto la prova tattile sarà l’unica che un bambino avrà per capire se ha ucciso un uomo in carne ed ossa oppure un ologramma. Nel secondo caso avrà totalizzato dieci punti, nel primo gli si schiuderanno le porte del carcere minorile”.
Il film, presentato alla terza edizione del Ravenna Nightmare Film Festival ai primi di ottobre del 2005, viene premiato con l'Anello d'oro per “essere riuscito a conciliare il genere gore con l’ironia, recuperando lo spirito di gioco e di intrattenimento di certi film degli anni ‘80”. Lieberman, infatti, ha sempre considerato l’horror il terreno più fertile ove coltivare la satira di costume, come ampiamente dimostrato in questo film: "Nell’horror le regole imposte dalla società sono accantonate, a tutto vantaggio della libertà espressiva. Mi piace spaventare il pubblico, ma anche farlo ridere. E il film raggiunge il suo obiettivo quando, oltre a togliere il sonno, riesce anche a far riflettere”.
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