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Hurt Locker è la cassetta in cui vengono riposti gli effetti personali degli artificieri che muoiono nel compimento del proprio lavoro, lascito pietoso a un Paese che li ha sacrificati e a parenti e amici che li hanno invano aspettati. “The Hurt Locker”, però, è anche il titolo del nuovo lungometraggio della 56enne californiana Kathryn Bigelow (“Point Break”; “Strange Days”): al centro della vicenda ancora la guerra in Iraq, vera musa ispiratrice di molti cineasti. La Bigelow, sulla falsariga del plurilodato “Redacted”, documentario di Brian De Palma ancora (scandalosamente) inedito in Italia, opta per una messinscena depurata di qualsivoglia scoria spettacolare, scegliendo uno stile secco e scabro; con i suoi sussulti repentini la mdp sembra introiettare l’inquietudine dei soldati americani, spalmandosi letteralmente su volti che ostentano un autocontrollo sempre sul punto di capitolare. Come sottolineato da una citazione in apertura, la guerra è una droga, e come ogni droga che si rispetti crea assuefazione: al pericolo, all’imprevisto, all’ignoto, alla possibilità di morire, materie prime che in Iraq crescono spontanee, nelle strade dei villaggi e delle città come tra le dune del deserto, negli anfratti, tra le macerie. La guerra è soprattutto un lavoro, più lucroso, rischioso e alienante di altri, ma pur sempre un lavoro, e la Bigelow non perde occasione di ricordarlo allo spettatore: gli artificieri rischiano la vita per una paga più alta e non per un ideale più nobile, per l’adrenalina che ottenebra la mente, come l’alcol ingollato alla fine di ogni giornata di ordinaria anomia. I soldati si muovono in uno scenario che non sanno né vogliono decifrare: incomprensibile, come la lingua di chi li circonda, gente vicina ma lontana anni luce con la quale lo scambio sociale è ridotto a uno scarno campionario di gesti e parole convenzionali. Nei quartieri diroccati, tra mura sbrecciate, carcasse di auto bruciate e cumuli di macerie, la morte non ha fretta di riscuotere i suoi crediti: tensione e paura si distillano dagli sguardi furtivi e sospetti, dai corpi rannicchiati dietro un muretto, da un sorriso che può celare una trappola mortale. La regista è abile a trasmettere quel senso opprimente di fatalistica attesa che divora il tempo e comprime lo spazio, evitando le trappole del manierismo – presente a sprazzi in passato – in favore di un resoconto analitico e sobrio che scava nel cuore dei personaggi per portare alla luce un forziere desolatamente vuoto, al di fuori di uno spirito di appartenenza al corpo militare sempre più logoro e sfilacciato. E chi torna a casa, nel ventre caldo e accogliente della famiglia, prova infine un senso estraniante di disorientamento, di non-appartenenza, che lo spinge, ancora una volta, verso la deriva.
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