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CUT TO THE CHASE - INTERVISTA A PETER R. HUNT

Peter Roger Hunt (Londra, 11 marzo 1925 − Santa Monica, 4 agosto 2002), figura di spicco del cosiddetto “Bond Team”, geniale montatore prima, abile regista poi, ha contribuito in maniera determinante a creare il mito dell’agente segreto britannico con licenza di uccidere, al pari dei produttori Harry Saltzman e Albert “Cubby” Broccoli e del regista Terence Young. La sua innovativa tecnica di montaggio, ribattezzata crash cutting, ha saputo conferire ritmo e dinamicità inediti al personaggio uscito dalla penna di Ian Fleming.

Negli Anni 60 James Bond rivoluzionò il mondo del cinema quanto i Beatles quello della musica...
“Esatto. Oggi non è certo più una novità montare un film come io feci con Licenza di uccidere, ma all’epoca era qualcosa di innovativo. Prima del 1961, anche nelle pellicole americane, si vedeva un tizio che scendeva le scale, usciva dalla porta, saliva in macchina e partiva. Adesso non più: il tizio esce e nell’inquadratura successiva è già arrivato!”.

Quando si dice: dritti al punto...
“E’ ciò che feci in Licenza di uccidere, per rendere il film più dinamico e scattante senza sacrificarne lo stile. Adesso questa tecnica è normale amministrazione. Tornando ai Beatles, mi ricordo che venivano sempre a vedere i film di 007; io li conoscevo tutti: erano bravi ragazzi, e grandi fan di Bond”.

E’ vero, come dichiarò Terence Young a una Bondzine, che visti i ritardi produttivi di Missione Goldfinger si era pensato di realizzare in tutta fretta Operazione tuono e di farlo uscire prima? E che lo stesso Young sbrogliò la situazione risolvendo i problemi di montaggio di Missione Goldfinger?
“Non credo proprio, anche in virtù del fatto che all’epoca Operazione tuono era al centro di una vertenza legale. Dopo una lunga battaglia in tribunale, infatti, fu stabilito che i diritti del film appartenevano a un certo Kevin McClory, poiché Ian Fleming, che forse stava esaurendo la vena creativa, aveva scritto Thunderball [Operazione tuono in italiano, ndr] ispirandosi a una sceneggiatura dello stesso McClory e di Jack Wittingham. Nei titoli di testa di Operazione tuono, del resto, McClory risulta produttore, non Saltzman e Broccoli... Credo che per dirimere la questione si ricorse infine a un accordo extra−giudiziario: da una parte McClory non disponeva dei mezzi per realizzare un film dal suo script, dall’altro ne deteneva i diritti e li fece valere in termini economici...”.

Dopo Operazione tuono sarebbe dovuto toccare a Al servizio segreto di Sua Maestà...
“Questo era il progetto originale. Avevano promesso di farmelo dirigere dopo Operazione Tuono, ma la produzione si trovò troppi registi sotto contratto, e io fui... congelato. Alla fine riuscii a girarlo, ma Al servizio segreto di Sua Maestà, nell’ordine degli eventi descritti da Fleming, veniva prima di Si vive solo due volte. Infatti, alla fine di Al servizio segreto... la moglie di Bond viene uccisa da Blofeld, e in Si vive solo due volte 007 si reca in Giappone per vendicarsi. Ma la produzione invertì l’ordine cronologico e modificò il finale di quest'ultimo. Ripeto: all’epoca Saltzman e Broccoli avevano messo sotto contratto diversi registi e a un certo punto si trovarono nella necessità di utilizzarli. Alla fine Lewis Gilbert, con il quale avevo lavorato per anni come montatore, fu il prescelto.
Tornando alla domanda precedente, posso ribadire che Operazione tuono fu messo in naftalina fino al giorno in cui non fu risolta la causa in tribunale, perciò girammo Missione Goldfinger. Quanto a Terence Young, ricordo che mi fu di grande aiuto e incoraggiamento fin dai giorni di Licenza di uccidere; non bisogna oltretutto sottovalutare che lo stile e la personalità di Terence furono determinanti nel forgiare il personaggio di Bond impersonato da Sean Connery. Terence Young fu l’uomo giusto al momento giusto, e un ottimo regista”.

Il cinema di Bond era peculiare per la sua epoca. Come nacque?
“A quei tempi ero uno dei più famosi montatori del cinema inglese. Harry Saltzman, che in Inghilterra aveva già realizzato I giovani arrabbiati con Richard Burton e aveva collaborato con diversi teatri nei primi Anni Cinquanta, aveva sempre manifestato il desiderio di lavorare con me. Tutte le volte che mi chiamava e mi proponeva un film io ero già impegnato a farne un altro, o in procinto di. Fu Harry che mi volle per Licenza di uccidere: io ero libero e poi conoscevo Terence Young fin da ragazzino; ero stato suo assistente per anni e lo apprezzavo. Licenza di uccidere incontrò diverse traversie: in primis era un film a basso costo; poi, a causa delle pessime condizioni meteorologiche che la troupe incontrò in Giamaica, non fu possibile girare che la metà di quanto previsto. Non c’erano grandi aspettative: molti lo consideravano semplicemente un film di serie B realizzato agli studi Pinewood; lo stesso Terence Young era scettico, pensava che non avrebbe giovato alla sua carriera! Noi, al contrario, eravamo convinti che fosse avvincente e divertente, e ci impegnammo allo spasimo. La conferma alle nostre sensazioni arrivò il giorno della proiezione di prova al Pavilion di Londra. Il pubblicò ne restò affascinato, e allora capimmo di aver creato qualcosa di nuovo. Gli spettatori erano stanchi di spaccati di vita sociale: con questo film regalammo loro una ventata di ammaliante fantasia. Certo la fortuna ha giocato un ruolo determinante nella riuscita del progetto; fin dai primi giorni di programmazione Licenza di uccidere sbancò i botteghini, con buona pace della United Artists, che sul film non puntava molto”.

I problemi affrontati nella lavorazione di Licenza di uccidere si rivelarono costruttivi...
“Con il senno di poi, sì. All’epoca il pubblico cominciava ad essere stufo dei film socialmente impegnati; con noi ritrovò l’atmosfera glamour dell’Hollywood degli Anni 40, uno stile d’avventura d’altri tempi che Spielberg riprese anni dopo con I predatori dell’arca perduta”.

Licenza di uccidere possedeva lo stesso fascino d’antan di certi serial televisivi di allora...
“E’ vero. Il suo stile era rivolto al passato, non al futuro, e fortunosamente la cosa funzionò”.

Dalla Russia con amore, invece, era diverso...
“Disponevamo di un budget maggiore e di ben altra consapevolezza. Ero sicuro che il film avrebbe avuto successo. Licenza di uccidere era costato meno di un milione di dollari: oggi ne sarebbero serviti 20 o 30. Anche gli incassi sono incrementati nel tempo in maniera considerevole: ogni nuovo film di Bond supera quelli del precedente, grazie anche all’aumento progressivo del prezzo del biglietto. Operazione tuono, che non era certo il migliore, incassò più di tutti: ricordo che a New York lo proiettavano 24 ore su 24!”.

Bond avrebbe avuto successo comunque...
“E’ vero. Fu una combinazione felice e fortunata di tempismo e di intuito. Quando Operazione tuono uscì, a metà degli Anni Sessanta, i Beatles erano all’apice della fama e ciò contribuì a trasformare l’Inghilterra nel baricentro artistico e mondano del mondo intero. Operazione tuono raccolse i frutti di questa improvvisa... anglofilia. Al riguardo ricordo un aneddoto significativo: mi trovavo in America per la promozione del film; all’aeroporto salgo su un taxi, e l’autista, che ha riconosciuto l’accento anglosassone ma non può immaginare chi io sia, comincia a raccontarmi di un film inglese di poche pretese che gli è piaciuto moltissimo. Il film era Licenza di uccidere!”.

Qual è il suo giudizio su Dalla Russia con amore?
Dalla Russia con amore fu il terzo film di Saltzman e Broccoli per la United Artists. Licenza di uccidere era stato un grande successo, e anche Chiamami buana non era andato male. Bob Hope [il protagonista di Chiamami buana, ndr] una volta mi confidò che per lui fu uno dei più redditizi di quell’epoca. Per quel che ci riguarda, ci trovavamo nelle condizioni di lavoro ottimali: se serviva un giorno di riprese in più ci veniva concesso senza problemi. La realizzazione di Dalla Russia con amore fu quindi molto più scorrevole, e d’altro canto avevamo acquisito una notevole padronanza tecnica e psicologica, oltre alla fiducia della United Artists. Eravamo diventati improvvisamente importanti, e potevamo permetterci qualsiasi cosa. Terence Young era a dire il vero un po’ teso, perché si trattava del secondo film della serie e non aveva la più pallida idea di come sarebbe venuto. Alla fine, però, la tensione svanì. La sicurezza nei nostri mezzi tornò totale dopo aver girato la sequenza di lotta sul treno [tra Sean Connery e Robert Shaw, ndr], una delle più complesse in assoluto per l’epoca. La carrozza fu ricostruita in studio e la scena ripresa con tre cineprese. Dovetti lavorare molto in fase di montaggio, ma alla fine il risultato fu notevole”.

Dalla Russia con amore si discosta dagli altri film della serie, e in più possiede un ritmo particolare...
“Il ritmo era la chiave di tutto. La storia, infatti, è del tutto improbabile. Perché fuggire in treno? Perché non in aereo?! L’azione doveva essere rapida perché il resto funzionasse. Non bisogna dimenticare che i film di Bond erano nati e concepiti come romanzi d’avventura in movimento. Ian Fleming scriveva ciò che i pendolari volevano leggere sul treno mentre si recavano al lavoro; descriveva la vita che loro fantasticavano, popolata di spie eleganti, di buon vino e via dicendo. Lui dedicava intere pagine a scarpe e camicie di cotone, si dilungava a descrivere il cibo che Bond mangiava, le belle donne, e tutto quel mondo luccicante, per quanto superficiale, affascinava il lettore e l’uomo medi. Noi dovevamo trasportare tutto questo dentro il film. E’ mia opinione che i film debbano essere realizzati con serietà, ma non presi sul serio. La corrente di sottile umorismo deve scaturire dal film stesso. Non è possibile programmarla a tavolino”.

Mentre nei film con Roger Moore, invece...
“Roger è un uomo adorabile, ho fatto tre film con lui, ma non ha mai incarnato il mio ideale di 007. A dire il vero, e non potrebbe essere altrimenti, uno dei miei Bond preferiti è Al servizio segreto di Sua Maestà”.

Che a mio modesto avviso è secondo solo a Missione Goldfinger...
“Mi accontento del secondo posto! Se George Lazenby fosse stato più malleabile con Saltzman e Broccoli, e viceversa, sono sicuro che sarebbe diventato un ottimo 007. Aveva il physique du rôle e si muoveva con grande disinvoltura, era un modello alla prima esperienza come attore. Ripeto: se le cose fossero andate in modo diverso sono sicuro che sarebbe diventato un buon Bond. Ma sono altresì convinto che loro [Saltzman e Broccoli, ndr] non se ne preoccuparono più di tanto... tutti i film della serie incassarono comunque!”.

Torniamo per un momento a Missione Goldfinger...
“Non sono soddisfatto del risultato finale. Ricordo che spesso mi dovetti accollare anche l’onere della seconda unità...”.

Cosa non andò per il verso giusto?
“All’epoca avevo la sensazione che il risultato sarebbe stato inferiore alle attese: la sceneggiatura aveva subito delle modifiche, il regista era cambiato [da Terence Young a Guy Hamilton, ndr]. Credo che anche la produzione condividesse le mie preoccupazioni; mi lasciarono molto più spazio che in passato. La sequenza dell’inseguimento in macchina è una piccola lezione di montaggio: fu girata in un modo, poi tagliata e montata per ottenere un risultato completamente differente. Un’esperienza stimolante, anche se ovviamente il pubblico non poté notare la differenza. Come dico spesso: ‘Meno male che il pubblico non può avere la sceneggiatura tra le mani!’”.

In cosa differiva la sequenza d’inseguimento dalla versione finale?
“Secondo me era stata realizzata in maniera inadeguata, ma alla fine riuscimmo a farla funzionare. D’altronde, in questo consiste ‘girare’ un film. C’era un altro motivo che mi rendeva nervoso: avevo smesso di fumare, mi sentivo come un leone in gabbia, continuavo a ripetere: ‘No! No! no! Così non va!’. Avevo assunto un atteggiamento dispotico, anche se poi i risultati mi diedero ragione. Dovevo dare al film lo stesso stile e lo stesso taglio dei precedenti, e ciò non stava accadendo. Devo confessare che ho sempre goduto della stima, della fiducia e della fattiva collaborazione dei produttori, che apprezzavano il mio lavoro perché si rendevano conto che era un duro lavoro. Un film, dopotutto, è composto dal 90 per cento di duro lavoro e dal 10 per cento di ingegno. Missione Goldfinger fu uno dei più difficili da realizzare, ma anche uno dei migliori. Aveva un buon cast, come del resto Al servizio segreto di Sua Maestà. Per quest’ultimo insistetti per un’attrice di talento, e mi diedero Diana Rigg. Anche i ruoli di contorno erano affidati ad attori di collaudato mestiere, ed è questo che fa la differenza. In Licenza di uccidere, per esempio, c’erano molti attori giamaicani, che poi dovemmo doppiare in postproduzione. Erano attori dilettanti, che utilizzammo per mere ragioni economiche”.

Il montaggio di Operazione Tuono dev’essere stato un incubo...
“Fu una sfida che in alcuni frangenti si tramutò in incubo! Era il film più ambizioso e costoso della serie, e a quei tempi quello di maggiore successo. Costò 11 milioni di dollari, all’epoca una cifra impressionante. C’erano molte sequenze subacquee, particolarmente difficili da montare. Nell’acqua i movimenti sono naturalmente rallentati: la cosa più difficile fu conferire all’azione il giusto ritmo. A dire il vero, mi sarebbe piaciuto rifare Operazione tuono, ma ci hanno già pensato con Mai dire mai. Quello che dissi allora, e ripetei in seguito, a proposito del film fu che la cosa più delicata era evitare di copiare quelli che all’epoca già ci imitavano”.

E’ contento del risultato finale di Operazione tuono?
“Il film mi piacque; da montatore fui particolarmente soddisfatto delle sequenze sott’acqua, perché rappresentarono un probante banco di prova; sul set alle Bahamas avvertivo la grossa responsabilità di farle funzionare cinematograficamente. Credo che Terence [Young] vide il film soltanto molto tempo dopo, perché all’epoca già impegnato a dirigerne un altro. Dopo Operazione Tuono divenni produttore associato di Broccoli in Citty Citty Bang Bang, che a mio avviso non aveva abbastanza ritmo. Purtroppo non fui io ad occuparmi del montaggio, perché occupato nella preproduzione di Al servizio segreto di Sua Maestà”.

Passiamo a Si vive solo due volte, che ha una trama a dir poco frammentaria...
“Credo proprio di sì, purtroppo. Però per me fu una grande esperienza; trascorsi sei mesi in Giappone a dirigere la seconda unità: tutte le sequenze aeree, il duello tra elicotteri... la prova generale per Al servizio segreto di Sua Maestà, che infatti andò a meraviglia. Si vive solo due volte ebbe comunque successo; l’aspetto più problematico fu adattarlo allo stile dei suoi predecessori: c’era la scena del matrimonio, celebrato secondo le tradizioni orientali, gli esterni in Giappone, l’incontro−scontro con una cultura completamente diversa. Credo che tutto ciò finì per disgregare l’identità stilistica del film”.

Alcune trovate di Si vive solo due volte − come quella in cui un elicottero dotato di magnete preleva una macchina dalla strada e la scarica in mare − sono sembrate francamente esagerate...
“Quella sequenza l’ho girata tutta in Giappone. Alla produzione e agli amministratori di Tokyo venne un colpo quando mi videro svolazzare sopra il porto. Non mi avevano dato il permesso di volare sopra la città, ma solo sopra la zona portuale; certo non pensavano che mi sarei avvicinato così tanto agli edifici... Lì ci facemmo prendere un po’ la mano dall’immaginazione, come in tutto il film del resto, sospeso sovente tra possibile e impossibile, con improvvise incursioni nella vita reale, come nella sequenza del matrimonio, credibile e curata nei minimi dettagli. Le due piattaforme stilistico−narrative finirono per non integrarsi: da qui l’impressione di disomogeneità della pellicola”.

E veniamo ora a Al servizio segreto di Sua Maestà...
“Quella, come del resto le altre, fu un’altra sfida. Questa addirittura più rischiosa, ma l’esperienza accumulata mi rendeva fiducioso e felice del mio nuovo ruolo. Naturalmente il problema principale fu scovare un nuovo James Bond”.

Come riuscì a convincere i produttori a tornare a uno stile più sobrio, soprattutto alla luce degli incassi dei film precedenti?
“Volevo un prodotto che si discostasse dagli altri della serie; era il mio film, e lo volevo realizzare a modo mio. Inoltre l’intreccio era originale, diverso dai precedenti; introdussi le sequenze sugli sci, mai viste prima in un film di Bond, e mi andò bene. Da allora tuttavia i distributori continuano a non gradire, a temere addirittura, le pellicole ambientate sulla neve, anche se io ne girai una in Canada, Caccia selvaggia [con Charles Bronson e Lee Marvin, del 1980], che ebbe un notevole successo”.

La sceneggiatura tornava finalmente ad essere fedele ai romanzi di Fleming...
“Per l’intera fase di preproduzione mi portai dietro una copia del romanzo di Fleming, lardellata di note e di appunti, e non persi occasione per ripetere a tutti che volevo seguire fedelmente il testo”.

Perché? Gli altri film della serie se ne erano progressivamente discostati...
“Prima di tutto era una bella storia. Non riesco a rendermi conto quanto si discostasse dagli altri episodi. Lessi il libro, lo combinai con alcune idee che mi frullavano in testa e realizzai il film. Non mi feci condizionare dalle pellicole precedenti; tutto quello che so è che realizzai un film di Bond alla James Bond”.

Era preoccupato di non avere più Sean Connery?
“Con lui Al servizio segreto di Sua Maestà sarebbe risultato il migliore del lotto. Purtroppo non potevamo averlo, quindi non ci facemmo prendere dalla nostalgia...”.

In molti all’epoca avranno trattenuto il respiro...
“Sì. Nessuno voleva prendere una decisione. A due settimane dal primo ciak brancolavano ancora nel buio. Aspettarono fino all’ultimo prima di scegliere Lazenby; mi chiesero soltanto se con lui il film avrebbe funzionato. Io risposi di sì, anche perché bisognava trovare un attore che accontentasse tutti, e Saltzman, Broccoli e la United Artists erano poi quelli cui spettava la decisione finale”.

George Lazenby non sfigurò nel ruolo di Bond...
“No, affatto. Dirigerlo non fu facile, sebbene lui sia convinto di non essere stato diretto adeguatamente, e fu arduo calarlo nei panni di Bond. Non voglio soffermarmi su quanto fu difficile, perché la direzione degli attori è una delle mansioni di un regista. Per fare un esempio, una delle scene migliori è quella in cui Diana Rigg viene colpita a morte nella macchina di 007. Ci recammo sul luogo del ciak alle 8 del mattino, feci accomodare Lazenby al lato guida e provammo la scena tutto il giorno, fino a quando, con George esausto − erano le 5 del pomeriggio! −, ottenni da lui l’espressione di dolore e di sgomento che cercavo. In cuor suo ce l’aveva con me per il mio atteggiamento da aguzzino, ma questo era l’unico modo per ottenere da lui l’intensità emotiva necessaria. Questo per dire che non ci si può limitare a dire semplicemente ‘Azione!’. C’è ben altro che un regista deve fare; fu impegnativo lavorare con lui, ma alla fine i risultati ci diedero ragione”.

Perché ha abbandonato la serie?
“A riprese terminate, prima ancora di renderci conto della bontà del risultato finale, c’era incertezza sul futuro, mentre in passato finito un film si pensava subito a come realizzare il successivo. La titubanza perdurò, il sodalizio tecnico si sciolse, e tutti si dedicarono ad altri progetti. Broccoli, che in quel periodo era ai ferri corti con Saltzman, mi chiese di dirigere Una cascata di diamanti, ma io avevo già preso un altro impegno. Gli domandai di far slittare l’inizio delle riprese, ma non poté farlo e finì per scegliere Guy Hamilton. Tempo dopo Pauline Kael mi fece un grande complimento quando, in sede di recensione, scrisse che era evidente quanto il film fosse orfano di Peter Hunt! In seguito Broccoli mi chiese ancora di tornare a dirigere Bond, ma anche in quella circostanza ero alle prese con un altro film, Caccia selvaggia. La cosa andò avanti per un po’ − lui mi chiamava, io avrei voluto ma non potevo −, fino a quando si rassegnò e non mi cercò più. Comunque, ho preso parte a sei film della serie, e penso di averle dato un robusto contributo. Se Lazenby avesse accettato di girare Una cascata di diamanti forse avrei diretto quello e i successivi, finendo per non fare altro. Nell’arco della mia carriera mi sono lamentato spesso di non aver potuto realizzare ciò che avrei desiderato: abbandonando la premiata ditta Broccoli & Saltzman questi rimpianti sono svaniti, perché ho avuto l’opportunità di girare film distanti dallo stile di Bond che mi hanno dato grandi soddisfazioni, come Il segno del potere e Ci rivedremo all’inferno, entrambi con Roger Moore”.

Considerazione finale: è stato un peccato che non l’abbiano chiamata a dirigere Mai dire mai...
“A questo proposito c’è un retroscena. Se avessi accettato avrei offeso Broccoli, che mi avrebbe considerato alla stregua di un traditore [l’apocrifo Mai dire mai uscì nel 1983, in contemporanea a Octopussy − Operazione piovra, che era il Bond “ufficiale” della serie, ndr]. Ne discutemmo, ma io non l’ho diretto per questo motivo”.

(Il testo integrale dell’intervista è disponibile al seguente indirizzo:
http://www.retrovisionmag.com/jamesbond.htm)

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