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LA GUERRA PARODIATA DEL SOLDATO BEN STILLER: TROPIC THUNDER



“L’idea di Tropic Thunder mi è venuta nel 1987, mentre giravo L’impero del sole di Spielberg. Era il periodo dei film sul Vietnam: con altri amici ci presentavamo ai provini, alcuni venivano scelti e spediti sul set per l’addestramento militare. A quei tempi sembrava che gli attori non facessero altro: tornavano e raccontavano che quell’esperienza straordinaria gli aveva cambiato la vita. Io ascoltavo e non potevo fare a meno di pensare: è buffo, sarà anche stata straordinaria, ma allora quella dei veri marines? In fin dei conti non si era trattato di un addestramento militare vero e proprio…ma è tipico degli attori appropriarsi delle esperienze altrui” (Ben Stiller)

Ben Stiller, classe 1965, attore specializzato in commedie brillanti e sentimentali, giunge con Tropic Thunder alla sua quarta regia cinematografica, dopo Giovani, carini e disoccupati (Reality Bites, 1994), Il rompiscatole (The Cable Guy, 1996) e Zoolander (Id., 2001).
Il film mescola la parodia classica con una riflessione autoironica e irridente sul mestiere – e relativa schizofrenia professionale – dell’attore, senza dimenticare di mettere a nudo attraverso la lente deformante della caricatura più grottesca quel lucroso e talora assurdo teatro di burattini che si chiama Hollywood.
Spiccioli di trama: un cast paradigmatico – l’action star in declino (Ben Stiller); il plurivincitore di premi Oscar affetto da sindrome di Zelig (Robert Downey jr.); il rapper nero in cerca di nuovi approdi commerciali (Brandon T. Jackson); la giovane promessa (Jay Baruchel) e l’attore comico in crisi esistenziale (Jack Black) – viene riunito per girare un film sulla guerra in Vietnam dal titolo di "Tropic Thunder", ispirato all’omonimo romanzo di un eroico reduce (Nick Nolte), presente sul set in qualità di supervisore. La regia è affidata a un giovane inglese esordiente (Steve Coogan).
La realizzazione del film, già in ritardo per via dell’evidente incompatibilità tra i due protagonisti principali, Stiller e Downey jr, subisce un clamoroso stop allorché, per un maldestro equivoco, una sequenza con esplosioni a catena dal costo di 4 milioni di dollari viene sprecata malamente. A questo punto entra in scena il produttore (Tom Cruise, reso irriconoscibile dal trucco), che aggredisce con inaudita veemenza verbale (anche fisica, per interposta persona…) la troupe e le intima di completare la pellicola entro i tempi stabiliti. Regista, supervisore e tecnico degli effetti speciali decidono allora di imprimere al film una svolta decisamente realistica…
Nell’intricata, insidiosa foresta vietnamita (“ricostruita” alle Hawaii), i Nostri riluttanti eroi sono costretti da una tragicomica catena di eventi a uscire dalla gabbia dorata della finzione e ad entrare in quella fredda e spoglia della realtà, con esiti catastroficamente comici. Il meccanismo dell’equivoco – il plotone brancaleone si imbatte in un gruppo di trafficanti di droga che li scambia per agenti della Dea - si arricchisce così di sfumature metacinematografiche che lo rendono ancora più irresistibile: i due protagonisti principali entrano in crisi per motivazioni differenti – Ben Stiller tenta vanamente di essere all’altezza della sua reputazione di celluloide, mentre Robert Downey jr., l’attore-camaleonte, non riesce a scrollarsi di dosso il personaggio di soldato afroamericano (lui che è australiano…), innescando gustosi siparietti con l’autentico nero del gruppo, Brandon T. Jackson.
Intrappolati nella giungla come nei propri personaggi, i nostri scalcagnati eroi dovranno quindi rientrare in se stessi per sopravvivere, anche se la luce della ribalta, ovunque decida di accendersi, sprigiona bagliori accecanti: Ben Stiller, caduto in mano dei guerriglieri, riconosciuto e acclamato per l’interpretazione strappalacrime del ragazzo down in “Simple Jack” (un fiasco al botteghino americano…) e costretto a esibirsi per la gioia di una pittoresca platea di trafficanti dal cuore tenero, ottiene un tale successo che quando i suoi colleghi irrompono nel campo per salvarlo, lui pensa per un attimo di fermarsi tra i suoi ammiratori-rapitori perché riscuote consensi che in patria sono ormai un pallido ricordo (“faccio cinque spettacoli al giorno…”).
Stiller regista ottiene dagli attori un’ammirevole coralità comica, utilizza sequenze splatter con una carica irriverente ed eversiva degna della Troma, e regala a Downey jr. un personaggio memorabile, permeato dallo schizofrenico candore di chi pensa che non ci possa essere vita oltre la finzione. Stiller attore si ritaglia il ruolo simbolico di una star del cinema seriale in declino vittima di un sistema produttivo decisamente più devoto alle clausole contrattuali che a quelle umane.

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