“Negli Stati Uniti ci sono sedici milioni di adulti che vivono ancora con i genitori: la percentuale è aumentata del 70 per cento negli ultimi tredici anni …”
(Adam McKay, regista)
Step Brothers (da noi tradotto con l’accettabile Fratellastri a 40 anni) prende l’abbrivio da una dichiarazione del presidente George W. Bush sull’importanza della famiglia, “il luogo dove la nazione trova speranza e i sogni spiccano il volo”. Il film ricostituisce per la terza volta il sodalizio artistico composto dal regista e sceneggiatore Adam McKay e dall’attore Will Ferrell dopo i successi nazionali di Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy (2004) e di Talladega Nights - Ricky Bobby: la storia di un uomo che sapeva contare fino a uno (2006). Il terreno è ancora quello della commedia scorretta e scurrile, sottilmente infantile e provocatoria. Brennan (Ferrell) e Dale (Reilly) sono due quarantenni che si rifiutano di crescere; il primo vive con la madre, il secondo con il padre. Quando i due genitori si incontrano per puro caso a un convegno di medici è amore a prima vista: i due decidono presto di sposarsi, gettando nel più cupo sconforto i due… adolescenti.
L’idea originale di Step Brothers è semplice, elementare nella sua linearità, ma al tempo stesso permette di ampliare a dismisura il raggio di azione, e soprattutto di improvvisazione, degli attori: il regista ha affermato che poco meno di un terzo del film è frutto di libere variazioni sul copione. La comicità che scaturisce ha la sua matrice in quella inarrestabile fucina di talenti che è il Saturday Night Live: è qui, infatti, che McKay e Ferrell si sono incontrati la prima volta nel lontano ’95, il primo scritturato in qualità di sceneggiatore, il secondo di travolgente intrattenitore.
Molti – addetti ai lavori e semplici spettatori – liquideranno il film come puerile e volgare, ignorando quella vena carsica di umorismo eccessivo, debordante, provocatoriamente greve e in fondo anarchico che scorre sotto la superficie sconnessa delle gag verbali e visive. Il lavoro di regista e attori è quello di individuare i confini di alcuni modelli di comportamento convenzionali per divertirsi a violarli alla stregua di clandestini. Nella sequenza più comicamente violenta Brennan si scaglia contro Dale brandendo una bicicletta (!); in quella più “scabrosa” il primo appoggia lo scroto su un piatto dell’amata batteria del rivale in segno di sommo sfregio e dispetto; in quella più disgustosa Brennan è costretto da un gruppo di ragazzini pestiferi a leccare la cacca biancastra di un cagnolino. Tra un episodio di sonnambulismo distruttivo e una sfilza tragicomica di colloqui di lavoro dall’esito disastroso, la pellicola semina anche qualche spunto satirico sull’omologazione consumistica della società americana e qualche divertente riflessione sull’importanza di rimanere sempre se stessi, nel bene e nel male, anche fuori tempo massimo.
Step Brothers (da noi tradotto con l’accettabile Fratellastri a 40 anni) prende l’abbrivio da una dichiarazione del presidente George W. Bush sull’importanza della famiglia, “il luogo dove la nazione trova speranza e i sogni spiccano il volo”. Il film ricostituisce per la terza volta il sodalizio artistico composto dal regista e sceneggiatore Adam McKay e dall’attore Will Ferrell dopo i successi nazionali di Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy (2004) e di Talladega Nights - Ricky Bobby: la storia di un uomo che sapeva contare fino a uno (2006). Il terreno è ancora quello della commedia scorretta e scurrile, sottilmente infantile e provocatoria. Brennan (Ferrell) e Dale (Reilly) sono due quarantenni che si rifiutano di crescere; il primo vive con la madre, il secondo con il padre. Quando i due genitori si incontrano per puro caso a un convegno di medici è amore a prima vista: i due decidono presto di sposarsi, gettando nel più cupo sconforto i due… adolescenti.
L’idea originale di Step Brothers è semplice, elementare nella sua linearità, ma al tempo stesso permette di ampliare a dismisura il raggio di azione, e soprattutto di improvvisazione, degli attori: il regista ha affermato che poco meno di un terzo del film è frutto di libere variazioni sul copione. La comicità che scaturisce ha la sua matrice in quella inarrestabile fucina di talenti che è il Saturday Night Live: è qui, infatti, che McKay e Ferrell si sono incontrati la prima volta nel lontano ’95, il primo scritturato in qualità di sceneggiatore, il secondo di travolgente intrattenitore.
Molti – addetti ai lavori e semplici spettatori – liquideranno il film come puerile e volgare, ignorando quella vena carsica di umorismo eccessivo, debordante, provocatoriamente greve e in fondo anarchico che scorre sotto la superficie sconnessa delle gag verbali e visive. Il lavoro di regista e attori è quello di individuare i confini di alcuni modelli di comportamento convenzionali per divertirsi a violarli alla stregua di clandestini. Nella sequenza più comicamente violenta Brennan si scaglia contro Dale brandendo una bicicletta (!); in quella più “scabrosa” il primo appoggia lo scroto su un piatto dell’amata batteria del rivale in segno di sommo sfregio e dispetto; in quella più disgustosa Brennan è costretto da un gruppo di ragazzini pestiferi a leccare la cacca biancastra di un cagnolino. Tra un episodio di sonnambulismo distruttivo e una sfilza tragicomica di colloqui di lavoro dall’esito disastroso, la pellicola semina anche qualche spunto satirico sull’omologazione consumistica della società americana e qualche divertente riflessione sull’importanza di rimanere sempre se stessi, nel bene e nel male, anche fuori tempo massimo.
Commenti