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DANIEL CRAIG, UN METALMECCANICO AL SERVIZIO SEGRETO DI SUA MAESTA’

Daniel Craig, classe 1968, inglese di Chester, è il settimo James Bond in celluloide. Nel 2005 ha firmato un contratto da 60 milioni di dollari per interpretare quattro film della serie nell’arco di dieci anni. Il primo, Casino Royale (2006), è stato diretto dal neozelandese Martin Campbell, che undici anni prima aveva anche sigillato il debutto dell’irlandese Pierce Brosnan nei panni di 007 nel notevole GoldenEye (1995). Per Un tot de sòla (libera traduzione romana di Quantum of Solace) il testimone della regia è stato raccolto dal 39enne tedesco Marc Forster (quello de Il cacciatore di aquiloni, per intenderci), che purtroppo si reputa un autore e non un regista di film di genere. Con Craig la saga del più popolare agente segreto del mondo (bell’ossimoro…) è tornata bruscamente alle origini: in Casino Royale, infatti, Bond non aveva ancora ricevuto il famigerato doppio 00 che certifica la licenza di uccidere. Con Quantum of Solace, l’atmosfera scivola nell’… abondianesimo: se è vero che il film sciorina scene d’azione inventive e ben congegnate – notevole quella in montaggio alternato con il Palio di Siena e soprattutto quella finale, ad alto coefficiente esplosivo -, queste risultano in parte penalizzate da un montaggio frenetico che finisce per indebolirne l’impatto. Difetto che non si era riscontrato, per esempio, nel succitato Casino Royale e soprattutto in GoldenEye (uno dei migliori Bond di sempre, va detto): valga come esempio la sequenza d’antologia con Brosnan a bordo di un carrarmato per le strade di San Pietroburgo, girata e montata in modo tale da non comprimerne il crescendo.
Come attore, Craig possiede buone qualità atletiche e drammatiche, ma sta al personaggio di James Bond come un tacchino all’arte del volo. Esagerando un po’, con quella faccia sgualcita e i lineamenti scolpiti nella pietra potrebbe candidarsi come protagonista di un’improbabile versione anglosassone del Mimì Metallurgico di wertmülleriana memoria. Eppure la rivista Ciak ha calato l’asso delle iperboli definendolo “il più grande Bond dopo Connery”, con buona pace di Pierce Brosnan, al quale Craig potrebbe servire la colazione in camera.
Alla Fiera della Fregnaccia si è distinta la bancarella di Marc Forster, il quale, in sede di presentazione del Bond numero 22, ha avuto il coraggio di affermare – cosa non si è pronti a dire per un po’ di promozione pubblicitaria – che “nell’era di Pierce Brosnan il personaggio era diventato un po’ farsesco (sic!), Craig, al contrario, l’ha umanizzato trasformandolo in una figura in cui ci si può identificare”. Lo stesso Forster ha poi confidato di avere rifiutato l’offerta di girare il numero 23: “Me l’hanno offerto, ma preferisco tornare a film più piccoli, più personali”.
Noi gliene siamo grati. Bisogna amare Bond per girare un buon Bond, non basta infilare una località esotica dopo l’altra come perle in un filo; o forse, più semplicemente, non bisogna avere la presunzione di arricchire il personaggio di “sfumature” che finiscono per snaturarne il carattere originale. In conclusione: Quantum of Solace è un buon film d’azione, non un buon film di 007, e il Bond di Craig ha più affinità con il personaggio di Jason Bourne che con quello creato dalla penna di Ian Fleming.
Curiosità finale: nel film è presente un inaspettato omaggio a Goldfinger, allorquando un’agente britannica viene rinvenuta morta sul letto di una camera d’hotel con il corpo completamente ricoperto di petrolio. Scelta appropriata: non è forse vero che il greggio è anche definito l’”oro nero”?




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