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F. GARY GRAY − IL RISOLUTORE DELL'ACTION MOVIE

Nel ricco panorama dei generi cinematografici quello d'azione è sicuramente il più codificato. Il suo rigido protocollo impone infatti luoghi comuni e iterazioni coercitive dal sapore vagamente rituale che finiscono per cristallizzarlo in abusati cliché. Saltuariamente, tuttavia, la liturgia conservatrice dell'action viene ritoccata, se non proprio riscritta, da officianti meno conformisti. F. Gary Gray è uno di questi.
Afroamericano, nato 39 anni or sono a New York, Felix Gary Gray comincia la sua carriera come teleoperatore e, contemporaneamente, dirige alcuni cortometraggi autoprodotti. Con il materiale girato Gray si offre di realizzare videoclip e in breve diventa uno dei migliori registi nel campo. Il suo esordio cinematografico risale al 1995, con una gradevole commedia dai tiepidi risvolti drammatici, Friday (Ci vediamo venerdì). Interpretata da Ice Cube − coautore della colonna sonora − e da Chris Tucker (Rush Hour), la pellicola coniuga commedia e dramma sociale con una netta predilezione per la prima. I due attori se la cavano egregiamente nei ruoli di Craig e di Smokey: il primo, licenziato rocambolescamente nel suo giorno di riposo, si trova senza lavoro nell'imminenza del week−end, pungolato dai genitori e perseguitato da amici scrocconi e da un vicino prepotente; il secondo, spacciatore per conto del boss locale Big Worm, fuma la merce invece di venderla, finendo per coinvolgere il malcapitato Craig. Sospeso tra le annotazioni più dissacranti e ironiche di un Melvin van Peebles (il più celebre regista di black cinema d'autore degli Anni 70) e il neorealismo da ghetto del John Singleton più militante (quello di Boyz 'n the Hood, di cui Ice Cube era guarda caso protagonista), Ci vediamo venerdì mostra una scrittura registica già sufficientemente sciolta e sicura, rifuggendo il turgido melodramma metropolitano per un approccio forse più consolatorio ma ugualmente partecipe e sincero.
Al contrario, la seconda opera di Gray, Set It Off (Set It Off − Farsi notare), girata l'anno seguente, vira decisamente verso l'action drammatico più inconciliabile e presenta una novità significativa, già annunciata da locandine sulle quali campeggiano i volti determinati delle protagoniste, quattro donne di colore. Il film è infatti incentrato sulle disavventure di quattro amiche, Lida (Jada Pinkett Smith), Cleopatra (Queen Latifah), Francesca (Vivica A. Fox) e T.T. (Kimberly Elise); duramente provate dai rigori di una vita ingrata e determinate a ribellarsi ad un iniquo destino, le quattro decidono di dedicarsi a un'attività redditizia per quanto rischiosa: rapinare banche. Il primo colpo ha successo e induce le novelle rapinatrici a ritentare la sorte...
A torto sottovalutato e generalmente mal distribuito nelle sale, Set It Off è al contrario la conferma di un sicuro e futuro talento: in un mondo − cinematografico e no − ancora così profondamente androcentrico il ribaltamento dei ruoli principali è già di per sé una scelta coraggiosa. A questo aggiungete una regia fluida e minuziosa, un'interpretazione corale convincente e un'atmosfera di reale disagio e disperazione e otterrete l'identikit di un film prezioso.
A questo punto l'interesse delle majors non tarda a manifestarsi: nel 1998, a soli 28 anni, Gary Gray ha l'opportunità di dirigere due mostri sacri quali Kevin Spacey e Samuel L. Jackson: la pellicola, The Negotiator (Il negoziatore), è un solido, teso action−thriller magistralmente interpretato dai due attori, ai quali Gray offre con deferenza lo schermo, con dovizia di primi piani e un sapiente gioco di campi e controcampi che alimenta costantemente la tensione dialettica. Per quanto di famigerata formazione "videoclippara", il regista rifugge il montaggio epilettico che sembra dominare incontrastato gli action−movies americani contemporanei; al contrario, utilizza deflagrazioni e sparatorie in funzione narrativa e non riempitiva, e la sua macchina da presa è più attenta a cogliere ogni scarto emotivo piuttosto che suggellare l'ennesima esplosione con dovizia di inutili angolature.
Grazie al lusinghiero riscontro di critica e di pubblico il nome di Gary Gray circola con maggiore continuità nei circoli produttivi hollywoodiani, anche se devono passare ben cinque anni prima che un suo nuovo film approdi nelle sale. Ma procediamo con ordine.
Nel 1999 Gray gira a quattro mani con Whitney Ransick l'episodio pilota di un serial televisivo, Ryan Caulfield: Year One, incentrato sulle (dis)avventure di un poliziotto diciannovenne di fresca recluta.
Nel primi mesi del 2001 ha inizio la lunga e travagliata gestazione del film poi distribuito due anni dopo nelle sale come A Man Apart (Il risolutore). In origine il titolo della pellicola è Diablo, ma un'azienda di videogiochi e giochi per pc, la Blizzard Entertainment, depositaria dei diritti del nome, intenta e vince una causa ai produttori della New Line; a fine agosto il film è pronto per essere lanciato sul mercato, ma l'attacco terroristico alle Torri Gemelle dell'11 settembre lo mette precipitosamente in naftalina. Nel dicembre dell'anno seguente, infine, mentre Gary Gray è impegnato su un altro set, i boss della New Line scoprono improvvisamente di non gradire l'epilogo del film, e pretendono che venga modificato.
Dopo ulteriori ritocchi e ritardi, Il risolutore esce nelle sale americane: è il 4 aprile 2003…
Con questo film Gary Gray conferma le sue qualità di autore in grado di permeare l'urgenza bruciante (e talora troppo superficiale) dell'action contemporaneo con i repentini ripiegamenti intimisti del cinema d'azione degli Anni 70. A tale proposito ragguardevole risulta l'utilizzo del primo piano, cui il cineasta afroamericano ricorre per stemperare la furia iconoclasta delle inevitabili deflagrazioni. Vin Diesel, ancora lontano dalle smargiassate e dai muscoli tatuati dell'eccessivo, modaiolo ma a tratti divertente XxX e smanioso di divincolarsi dal cliché del macho, offre un'interpretazione intensa e sofferta nei panni di Sean Vetter, un poliziotto della Narcotici da tempo sulle tracce di un fantomatico signore della droga messicano soprannominato El Diablo; quando quest'ultimo, per ritorsione, gli uccide l'amatissima moglie, Vetter si accorge che gli spazi della legge sono troppo angusti per un uomo affamato di vendetta.
Nobilitato da una fotografia che, al pari del protagonista, pare avere smarrito la luce e da un ritmo che ne asseconda il tormentato tracciato emotivo, Il risolutore non fatica troppo a disincagliarsi degli inevitabili luoghi comuni che saltuariamente affiorano qua e là.
I ritardi produttivi che hanno angustiato a più riprese il film danno vita a un curioso quanto inconsueto accavallamento: a breve distanza dall'uscita nelle sale de Il risolutore un altro film di Gray approda nel circuito cinematografico: The Italian Job (Id.).
Remake − solo parziale − di un famoso giallo−rosa inglese ambientato a Torino, diretto da Peter Collinson nel 1969 e interpretato da Michael Caine, Noël Coward, Benny Hill e Raf Vallone, il film di Gary Gray ha l'ingrato compito di tradurre secondo l'estetica contemporanea l'ineguagliabile, bizzarra atmosfera da "swinging London" brillantemente esportata allora in terra sabauda. Partendo dall'elemento−icona del modello originario − le leggendarie e sguscianti Mini Cooper −, Gray imbastisce un film corale solido e scattante, grazie a un'affiatata squadra di interpreti, tra i quali spiccano Mark Whalberg, Charlize Theron, Edward Norton (pare abbia preso parte al film solo per dovere di contratto) e Jason Statham, senza tralasciare il grande Donald Sutherland, che si ritaglia una parte piccola ma significativa nell'articolato prologo. Il pregio principale di questa pellicola, al di là dei meriti squisitamente tecnici − virtuosistici dolly, eleganti ellissi −, è da ricercare nella chiave stilistica scelta dal regista: se nell'intreccio l'elemento ipertecnologico è addirittura invasivo, nella messa in scena è programmaticamente assente, sostituito da stunts e da esplosioni in scala reale, come quella che fa precipitare un furgone portavalori direttamente sui binari della metropolitana. L'approccio realistico voluto da Gray è la carta vincente di un film che tiene l'elemento umano − ed emotivo − sotto costante quanto partecipe osservazione. Con quest’opera il cineasta newyorkese ribadisce il proprio amore per il cinema di genere, che rilegge e riscrive brillantemente con un occhio ammiccante rivolto al passato.
Un paio di anni dopo, nel 2005, Gray dirige quello che risulta a tutt’oggi il suo ultimo lavoro, Be Cool, seguito del fortunato Get Shorty firmato da Barry Sonnenfeld nel 1995. Spiccioli di trama: Chili Palmer, ex gangster convertito all’industria discografica, rimane colpito dal talento di una giovane sconosciuta, Linda Moon, e cerca di assicurarle un contratto. Sulla sua strada un magnaccia maldestro e la sua effeminata guardia del corpo, gangsta rapper dai modi poco ortodossi e persino la mafia russa… La tela dipinta da Gray è il frutto dei colori sgargianti che dominano la tavolozza a sua disposizione: i toni passano con buona scioltezza dal registro comico a quello drammatico, da quello violento a quello moderato, componendo un puzzle divertente e multicolore, che non risparmia qualche frecciata satirica al mondo discografico colonizzato dalla dialettica e dall’estetica rap, ben esemplificata dal pittoresco personaggio di Cedric The Entertainer. Be Cool si rivela divertissement gradevole, ironico, lieve e talora sofisticato, e non indulge in stucchevoli manierismi. Cast di primo piano: John Travolta, Uma Thurman, Vince Vaughn, The Rock e il succitato Cedric The Entertainer formano una compagnia affiatata, disciplinata e ispirata. Gustoso cameo per il cantante degli Aerosmith, Steven Tyler, nel ruolo di un se stesso un po’ imbambolato.

Commenti

Aglaja ha detto…
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